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Antropologia del quotidiano. Nel di-segno del tufo di Matera - Milano

6 - 12 aprile 2010, Galleria D’Ars, via Sant’Agnese, 12/B - Milano

Due artisti materani, Franco Di Pede e Michele Morelli, in mostra a Milano per esportare una realtà. Protagonista il tufo di cui è ricco il territorio della città dei Sassi.
La mostra si inserisce in una serie di iniziative a sostegno della candidatura di Matera Capitale Europea della Cultura per il 2019.
Michele Morelli
Fotografo, nasce a matera nel 1956. Ha esposto in varie città italiane e all’estero. Sue fotografie sono inserite in periodici e riviste specializzate, nonché in volumi monografici.

Espone alcune immagini delle cave di tufo di Matera mettendo in evidenza i segni lasciati dall’uomo e le tracce che hanno fatto di queste cave un museo a cielo aperto. Le sue opere fissano momenti di apperente casualità ove però si avverte la plasticità e la specificità del soggetto. Ogni foto, resa con molta efficacia, è sempre carica di un’emozione nuova. Lo dice egli stesso: mi piace fotografare quelle sensazioni che possono essere tradotte in immagini essenziali.
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Franco Di Pede
Scultore e animatore culturale (dirige lo Studio Arti Visive dal 1964), nato a Matera nel 1937, dove vive e lavora, punta su opere di recente produzione, in tufo, materiale facilmente plasmabile, ricavando forme geometriche dense di simbolismi.

Si tratta di 12 sculture, realizzate in tufo e ferro, tante quanti sono i segni dello Zodiaco. In questo modo la materia cede il passo al segno nella complessità dell’immaginario collettivo e, attraverso il linguaggio universale dei simboli, suscita nel fruitore qualche riflessione sul quotidiano.

Nelle cave la memoria del pianeta
di Pasquale Doria

Lasciarsi guidare dalle sensazioni olfattive. Mettere in moto le narici e seguire la scia profumata che avvolge il prospiciente altipiano di Matera diventa presto un percorso in grado di spingere chiunque ben oltre il proprio naso. Che spettacolo in primavera le verdi distese picchiettate da fiorellini rosa di timo. La piccola pianta aromatica abbonda sulla Murgia, un’isola di roccia sedimentaria a cavallo tra Puglia e Basilicata. Geologicamente si tratta di calcarenite, ricchissima di fossili. L’etimologia del termine Murgia è già rivelatrice, murices vuol dire conchiglie. E una volta, dalle sue pieghe più intime, è saltato fuori addirittura il gigantesco scheletro di una balena. Primordiale cetaceo lungo più di venti metri. È rimasto sepolto oltre un milione di anni. Qui c’era il mare. Adesso, sotto il peso del tempo, quella massa di acqua si è pietrificata. Si è trasformata in natura carsica, severa, decisamente matrigna. Ma, a modo suo, è materia ancora viva. La superficie, ricoperta da uno strato vellutato di muschi e licheni, protegge una bava calda e friabile, quella sparsa nella notte dei tempi da Poseidone, il primo padre del tufo. Le abitazioni del centro storico sono costruite con questa pietra docile. Una materia che respira e tramanda a futura memoria l’epopea di infinite distese di alghe, immensi banchi corallini lentamente emersi e, poi, tagliati in blocchi ben squadrati, faticosamente sottratti al sottosuolo per dare forma ad ardite costruzioni capaci di sfidare nei secoli la forza di gravità. Il tutto senza neppure l’ombra di uno schizzo di cemento. Sono anche questo gli antichi rioni Sassi di Matera.
Oltre gli archi e le eleganti volute, al di là del paesaggio urbanizzato, lungo i tranquilli rilievi grigio-verdi della Murgia, di colpo fanno la loro apparizione enormi pareti tagliate perpendicolarmente. Affondano nel terreno in un impressionante moto di discontinuità geometrica e cromatica. Il loro colore chiaro spezza la monotonia carsica, prevale il candore della tufara ora silenziosa, ma non muta, perchè parlano i segni consegnati da generazioni di uomini dal viso imbiancato non meno dei loro fratelli impegnati nei vicini mulini. Due simboli certi sui quali si è costruita Matera: la pietra che, lavorata, ha dato rifugio ai suoi figli, e il grano, che trasformato in farina, è diventato pane per nutrirli e sostenerli nel lavoro di tutti i giorni.
Al primo impatto visivo, superato il contrasto abbagliante con il paesaggio circostante, dentro le cave si avverte la vertigine di uno spazio improvviso, più grande delle piazze e più alto delle abitazioni edificate nella vicina città. Sale un’emozione che diventa indescrivibile quando si cerca di leggere su quella matrice antica la sequenza dei gesti misurati impressi da anonimi cavamonti. Si scivola verso lo spaesamento allucinato se poi si prova a cogliere i respiri profondi ritmati dai colpi di piccone e imprigionati per sempre nei solchi del tufo. No, non è impossibile cogliere il mormorio lontano, il lamento dello sforzo amplificato in quel megafono di pietra e immediatamente calcificato nella polvere di una storia che potrebbe essere stata scritta da giganti.
Pare quasi udirli: un respiro, un colpo. Protagonista un esercito di polmoni e braccia attanagliati dalla fatica. E già si distingue un “dai” e “vai” che a tratti riecheggia ovunque come un ansimante concerto lubrificato dalle stille di sudore impastate in un latteo mare di tufo macinato. Attraversare l’instabile silenzio di una cava, adattarsi gradualmente al lucore delle sue intimità esposte all’ossidazione naturale è come essere risucchiati in un’altra dimensione, dove diventa possibile mettersi all’ascolto degli intimi ingranaggi che regolano l’universo. Esperienza unica: si sottrae ad uno stato di subalternità chi si commuove al cospetto di un simili monumenti/documenti dell’infanzia del nostro globo terracqueo. In antitesi al colpevole oblio, anticamera di ogni futura perdita di significato, tutte le parole e le immagini dedicate alle tufare risulteranno ben spese solo se contribuiranno a sottrarre all’oltraggio estremo dell’indifferenza questi luoghi della memoria planetaria in cui si trova scolpito il respiro del tempo.
di Francesco Pentasuglia

Michele Morelli volge la sua attenzione alle cave di tufo di Matera, all’attività che in esse ancora si pratica o, se abbandonate, alla loro fossilizzazione Egli indaga la ricchezza dei segni impressi dagli ultimi scavi che hanno scolpito, sulle pareti, enigmatiche figure geometriche e decorato spogli ricoveri di cavamonti con rilievi di fattura popolare ed espressioni di una semplice, umile pìetas religiosa.
L’obiettivo del fotografo materano, interprete originale della realtà rupestre, ritrae l’atmosfera criptica degli ipogei, illuminati da una luce radente che lambisce superfici scabrose, rese ancor più incise dall’efficace contrasto di un bianconero rigoroso.
Il sottinsù di alcuni scatti fotografici esalta, deformandola scientemente, l’altezza vertiginosa di pareti tufacee su cui si scorgono gli interventi dell’uomo che ha ridisegnato, modificandola profondamente, una natura aspra e selvaggia. Su una di queste pareti, che presenta segni di escavazione e di opere murarie, lo skyline è qualificato dalle nuove costruzioni della città. E’ un’immagine emblematica perché riprende, sovrapponendoli, due ambienti, ed il più recente trova sull’antico e nell’antico il proprio fondamento, non solo materiale.
Morelli, però, pur compreso di un nostalgico sentimento per la passata vicenda umana che rivive nelle cave, non tralascia affatto di fotografarne l’attuale struttura produttiva. Le vedute dall’alto risultano esteticamente suggestive per una scelta efficace di luci ed ombre che disegnano, sul terreno, triangoli e trapezi e trasmettono, con i bianchi candidi dei tufi, tutta la sensazione della caldissima, abbagliante estate del Sud.
L’uomo, fotografato in scenari maestosi, offre all’autore il criterio per dimensionare gli spazi e ribadirne l’intima essenza geometrica. Ed è ancora l’uomo, ormai assente in molte cave abbandonate, che Morelli cerca e trova, come spirito dei luoghi, sulle pareti scarnificate da strani solchi o nel rilievo di un sole antropomorfo, straordinarie testimonianze di una “ars“ antichissima: la litotomia.

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Nel di-segno del tufo di Matera

6- 12 aprile 2010

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